Per loro un’esperienza notevole non è qualcosa che dipende dalla volontà di osservare ed ascoltare in modo profondo e di giocare con le molteplici prospettive e cornici a cui si presta qualsiasi evento, ma unicamente quello che si prova in situazioni eccezionali e a contatto con persone eccezionali.
Di conseguenza la loro vita è un continuo lavorio per definire cosa è notevole e cosa è ordinario e per controllare che il carattere ordinario delle situazioni ordinarie sia rispettato. Sono sempre in allarme per stare ben attenti che nessuno in una situazione giudicata ordinaria goda di quella intensità di emozioni a cui solo le situazioni eccezionali danno diritto.
Se per esempio alla domanda “cosa hai fatto oggi” una ragazzina si permettesse di rispondere “Andando a scuola ho notato che l’erba lungo il ciglio della strada in questa stagione ha quattro diverse sfumature di verde” si troverebbe accolta da sguardi diffidenti o preoccupati: perché mai riferisce una cosa del genere? Cosa vorrà realmente dire? Starà male? Questa ragazzina dovrà allora darsi da fare per gettare la luce della normalità su quella osservazione anomala, per esempio dicendo “era un compito dato dall’insegnante di scienze” …. Adesso va bene perché così si comportano normalmente gli studenti.
Chi non si adegua a questa regola e insista con indebite caratterizzazioni viene bollato come chi “vuol darsi delle arie”, “vuol apparire ciò che non è”, “vuol fare l’artista”. A Esotica, infatti, gli unici legittimati a produrre resoconti personalizzati e caratterizzanti è compito di una categoria di professionisti, chiamati “gli artisti”. La credibilità di tutti gli altri, invece, e la possibilità da parte delle persone “normali” di stabilire rapporti di fiducia reciproca fra loro, sono affidate in modo netto alla prevedibilità dei loro resoconti.
A questo fine l’esotese, la lingua che si parla a Esotica, possiede una vasta gamma di espressioni funzionali alla sottolineatura del carattere non degno di nota di quel che accade: “niente di speciale” è l’espressione più comune con cui gli esotesi iniziano esplicitamente o implicitamente ogni discorso. Questa espressione aiuta il pensiero ad orientarsi verso una successiva elencazione di comportamenti assolutamente generici e a trascurare ciò che può disturbare.
Molto di moda sono tutti gli intercalari che siano un invito ad affidarsi fiduciosi agli stereotipi correnti: “cioè”, “sai com’è”, “si sa”, “hai presente” e “l’eccezione conferma la regola” è il proverbio più usato e diffuso.
Tutto questo sistema di catalogazioni della realtà e di educazione e dedizione a rispettarle ha però una conseguenza non prevista e paradossale: quando infatti una persona riesce finalmente a vivere una esperienza eccezionale (per esempio viene invitato a cena da Monica Bellucci, viene coinvolto in un’alluvione e salva se stesso e altre persone, fa un viaggio nell’isola di Tonga, ecc.) non può offendere gli interlocutori a cui la racconta descrivendo quell’esperienza come se essi non sapessero di cosa si tratta e quindi si ritrova a doverla riferire come ordinariamente si vive una esperienza straordinaria.
Il narratore deve quindi stare ben attento a trasmettere i giusti indicatori di intensità fin dall’inizio, dalle prime battute, in modo che l’intero racconto scorra nella più regolare verosimiglianza curando meticolosamente il tono di voce e la postura in modo che siano assolutamente e controllatamene “normali”.
Una conseguenza di tale paradosso è che lo stock di esperienza degli abitanti di Esotica rimane straordinariamente primitivo, povero e statico. Possiedono tecnologie estremamente avanzate che producono quantità enormi di informazioni di cui non sanno assolutamente che fare.
Come Re Mida che tutti i cibi che toccava trasformava in oro (e quindi ebbe sempre più fame, finché di fame morì) gli abitanti di questa città lontana sono condannati a trasformare ogni esperienza, anche la meno usuale e straordinaria, in qualcosa di ordinario e monotono.
La città di Esotica – Questo racconto è una rielaborazione di alcune pagine di un bellissimo libro di Marianella Sclavi (Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori Editore) in cui l’autrice a sua volta rende omaggio a Italo Calvino (Le città invisibili, Einaudi, 1972) ispirandosi ad un saggio di Harvey Sacks (On doing being ordinary, Cambridge University Press, Cambridge, 1984).